Sono giorni sospesi tra quiete e caos. La vita continua si, ma in modo diverso. Le ore sono scandite con ritmi differenti, meno frenetici e a cui sicuramente non sono e non siamo abituati. Ritmi che permettono di fare molte cose in più, ma anche molte cose in meno. Ho ritrovato la gioia del preparare un dolce o del cucinarmi con calma una pietanza, del guardare mia mamma sorridere quando è realmente felice di qualcosa, scorgendo in ogni sua ruga ed espressione il suo umore, ho ripreso in mano la mia chitarra (alla quale, parecchi anni fa, avevo dato anche un nome, Hope). Ma non solo, ho ricominciato a divorare libri come un tempo, a leggermeli in pochi giorni, a macinare le pagine come fossero chilometri da percorrere al fianco di personaggi nuovi che prendono forma nella mia testa e intanto ad avere il tempo per occuparmi anche del resto, lavoro e doveri vari compresi, senza sentirmi stanca, ma al contrario energica, anche troppo. Intanto la mia testa, quello stesso luogo in cui prendono vita storie e personaggi, è piena di tante nuove idee e spesso mi lascio anche sopraffare dalla paura di non riuscire a realizzarle non appena questo esilio forzato mi catapulterà con forza di nuovo nella realtà quotidiana, con i ritmi serrati e incalzanti a cui ero abituata. Ritmi che, a pensarci ora, mi fanno venire l’affanno. Mi manca un poco il fiato a pensarci. Io una pausa me l’ero già presa tempo fa, il motivo ve l’ho spiegato nel post pubblicato due o forse tre settimane fa. Adesso però lo stop è forzato: nessuno di noi ha potuto decidere di propria volontà di fermarsi. Siamo stati obbligati, tutti, soprattutto chi ha preso con più serietà la faccenda, ad aprire un dialogo con tutte le parti di sé, a conoscersi meglio, a scrutare ogni minimo dettaglio a rincorrere i perché. Beh, tutte le parti di me comunicano tra loro e come sempre – ora più che mai – si fanno domande: chi saremo dopo questo esilio forzato? Quante cose sfuggono al nostro tempo? Quanto siamo incapaci di gestirlo il tempo!? In questo momento siamo come dei bruchi in fase embrionale. Molti di noi hanno avuto l’opportunità di fermarsi, di vivere il tempo e le persone in maniera diversa rispetto al solito. Siamo sempre così troppo impegnati a rincorrere le ore e i minuti o a passare parte del tempo incastrati in qualcosa che non ci fa stare realmente bene. Accade, forse, perché in verità non ci guardiamo mai dentro sul serio. Quante volte vi fermate a guardarvi seriamente allo specchio? Dico seriamente perché non ci si deve guardare solo per vedere come si sta in un vestito o con un’acconciatura. Lo sapete che una volta, nel laboratorio di cui mi occupo, ho praticamente costretto dei ragazzini a guardarsi per un minuto allo specchio senza distogliere il proprio sguardo dai propri occhi? In questi diciassette giorni (diciannove? Venti? ho perso il conto) mi sono soffermata più volte a guardarmi allo specchio riflessa nella mia semplicità e verità casalinga, ho guardato i miei occhi e, come quei ragazzini, all’inizio ho scansato lo sguardo, mi sono messa a ridere, mi sono lasciata intimidire da quella persona riflessa: me stessa. Ho analizzato i nei del mio volto: uno a sinistra, sotto il labbro inferiore. Uno al fianco dell’occhio sinistro, uno al fianco dell’occhio destro, uno appena sotto lo stesso occhio e così via. E chi se li ricordava più quei nei! Sono io, sono proprio io! Quante volte ho dimenticato di guardarmi con calma e apprezzare ogni mio dettaglio, bello o brutto che appaia ai miei occhi. Quante volte ho dimenticato di amarmi? Di prendermi lo spazio e il tempo giusto per fermarmi seriamente a riflettere o anche di provare un nuovo vestito e avere il coraggio di indossarlo? E ancora, di guardarmi così, nuda, priva di maschere e pretese, nella verità assoluta e nella purezza di un momento che costringe a questo, un momento che dovrebbe farci riflettere e renderci diversi anche dopo. Che poi si, qualcosa lo avevo imparato anche prima che l’emergenza forzasse tutti a restare a casa. E’ solo che ogni tanto bisogna ricordarsi di guardarsi allo specchio e di porsele delle domande guardandosi però dritto negli occhi: sei felice? Come stai? Come ti senti oggi? Sapete, non mi ero per niente accorta di avere due crateri sotto gli occhi. DUE CRATERI, non sto scherzando. Passo così tanto tempo a lavorare, a cercare il mio spazio certo nel mondo, che mi sono dimenticata di quanto sia bello essere quello che sono sempre stata: una funambola che sta in bilico tra tutte le cose che ama, che è pronta a rischiare di perdere l’ultimo treno e di aspettare quello della mattina dopo anche per strada, sincera (per questo antipatica a molti), che non dorme la notte per finire un libro o per dedicarsi a qualcosa, creativa, forte, determinata nonostante tutte le infinite insicurezze e incertezze dettate anche dalla corda in bilico su cui mi piace stare sospesa. Della vita qualcuno di noi si era dimenticato già da un pezzo, io non del tutto, ma in parte si. Qualcuno mi dice che è una questione di priorità, beh, si: ma la priorità assoluta dovrebbe essere quella di stare bene, essere felici. SEI FELICE? Te lo chiedi mai? Probabilmente nessuno di noi lo fa. Ed io dopo tutto questo voglio tornare a chiedermelo più spesso, perché in questo mese ho realizzato che ero felice, ma potrei esserlo di più se la smettessi di tarparmi le ali. Sono felice delle persone che ho intorno, di quelle che non ci sono più, sono felice di quello che sono diventata, della strada che sto percorrendo e delle strade che prendo ogni tanto per perdermi e scoprire nuove cose, sono felice di avere occhi incapaci di mentire. Sono felice della mia curiosità, della mia voglia di imparare, della mia voglia di osare e della mia resilienza, del mio saper essere forte e fragile, della mia resistenza, del mio saper andare veloce come un treno e del mio saper rallentare per guardare meglio quello che ho intorno e prendere la rincorsa per avere più sprint non appena possibile, sono felice dei miei tempi, dei miei ritmi, perché nonostante tutto sono nel mio tempo, anche se qualcosa dovrei imparare a gestirla meglio, sono felice del mio spirito guerriero e dei suoi opposti, che sanno esattamente quando spegnere i fuochi. Sono felice del mio essere acqua, fuoco e vento, così come sono felice di non avere paura di sporcarmi le mani di terra e sentire sulla mia pelle la vita, nel meglio e nel peggio del suo tempo. Si, tutto sommato, senza sottrarre nulla, nulla di nulla, sono felice e tutto il resto sono pagine da scrivere e scoprire, giorno dopo giorno. Dobbiamo essere tutto di noi, questa è la nostra bellezza, in fondo quello che siamo, nel bene e nel male, è quello che siamo sempre stati, sta a noi scegliere se portare o meno tutto alla superficie. Viaggiavamo solo attraverso le fasi di vita, come fasi lunari: ora non resta che guardarci e guardarsi dritto negli occhi, senza paura. Ci sono tante cose che auguro a me e agli altri alla fine di questi giorni di esilio forzato: mi auguro che gli esseri umani ne escano cambiati, migliori, un po’ più umani e rispettosi nei confronti degli altri e del mondo stesso, della natura e di quello che ci circonda, di tutte le storie che appartengono all’umanità intera. E mi piace sperare che sarà così, anche se so che in fondo così non sarà perché da appassionata di storia so che il genere umano non è propenso ad imparare dai propri errori. Ma forse si, forse guardandoci dentro, scavando nel profondo, qualcuno, anche solo uno su tre, si renderà conto di quei valori perduti e chissà, cambierà rotta.
La felicità è solo un’invenzione del nostro cervello, troppi neuroni, troppe sinapsi, questo è il problema: produciamo troppi pensieri. E quando leggo libri che parlano di meditazione, di miglioramento personale, sorrido. Servono solo a chi li scrive, noi sappiamo già cosa ci serve: fermarci e vivere la nostra vita, non quella degli altri. Marco.
Quante belle cose hai scritto. Penso come te che se riuscissimo a guardarci veramente dentro potremmo essere migliori. Pochi lo fanno seriamente e poi forse non nel modo giusto. Buona continuazione di scrittura