A volte mi manca lo scorrere lento delle giornate in Calabria, la brezza del vento alle otto del mattino, l’odore del bosco, della rugiada, del mare, del peperoncino sempre fresco, anche quando estremamente cotto dal sole. Mi manca l’assoluta inconsapevolezza e l’ingenuità del vivere senza pensare alle conseguenze, senza prendere sul serio un vaffanculo o un ti amo. Mi mancano i litigi stupidi, quelli che, anche quando erano basati su solide motivazioni, si risolvevano subito e bastava poco, davvero poco, per tornare a sorridere. Mi manca vivere semplicemente, vivere in quella casa di pietra che da un momento all’altro poteva crollarmi addosso, ma tanto che me ne fregava: io di certezze non ne avevo, a parte il mio costume verde e viola con cui tuffarmi nel mare, i miei capelli biondi, un tetto, seppur instabile sulla testa, un letto su cui dormire poco e saltare tanto, un gatto nero, un cielo blunotte pieno di stelle super visibili ai miei occhi, i vestiti di mamma da indossare di nascosto, le bottiglie di acqua da usare al posto della doccia, un panorama mozzafiato su un’immensa collina, il mare dall’altra parte, una fantasia senza limiti, i fogli bianchi e le penne per giocare a fare la scrittrice, le spazzole per giocare a fare la cantante e gli armadi in cui rifugiarmi per estraniarmi dal mondo e crearmene uno mio, perfetto nelle sue imperfezioni. Tutto di quel periodo è andato perduto, è una fotografia in bianco e nero, è un ricordo confuso e sbiadito. Quella casa è stata distrutta, forse sarebbe crollata comunque, anzi, ne sono certa, ma era così bella e, da qualche parte, su quel suolo calpestato da litri di cemento c’è ancora quella parte di me che sognava senza fregarsene, che viveva senza fregarsene, che viveva e sognava e basta, che aveva speranza nel futuro, che si tuffava senza saper nuotare, che cantava senza saper cantare, scriveva senza saper scrivere, quella stessa parte di me che ritrovo nel viaggio, lungo strade mai percorse, lungo nuove avventure, come quelle delle attese in aeroporto, quando ti guardi intorno e vedi volti stanchi e felici, quando senti le lamentele per i ritardi e pensi che la vita sia bella soprattutto per le attese e per i silenzi, quando ci si saluta per poco tempo ma sembra che sia per sempre, quando ci si saluta per sempre e non si trattiene più niente, quando stai li a pensare seriamente alla tua condizione di essere umano e i bambini ti sputano in faccia la spensieratezza, correndo pieni di energia, con le braccia aperte, imitando le ali degli aerei, ondeggiando, come se fossero sempre in volo, senza problemi seri in cui inciampare – tanto domani è un altro giorno – e si stupiscono, si stupiscono di tutto. E mi manca, mi mancano quei giorni in Calabria perché bastava l’odore del peperoncino per dimenticare il resto, per guardare oltre e sentirsi bene, rigenerati. Poi si cresce, ci si riempie di miliardi di sfumature, ci si incasina ed è bello, è meraviglioso anche tutto questo ma non ha senso, non ha senso se ci si dimentica di vivere ogni giorno come se fossimo sempre in viaggio, se ci si dimentica dello stupore, del vivere applicando seriamente ai nostri giorni il chissenefrega/siviveunavoltasola. E sto qui, a pensare che sto bene anche adesso, con tutti i miei casini e giuro, giuro che non cambierei niente, ma c’è questo odore, questo odore passato di cui mi sto impregnando, un odore che credevo sbiadito, che credevo andato, dimenticato, che mi sta ricordando che ci si può disinfettare da tutte quelle cose che ti fanno smettere di vivere davvero, con spensieratezza, senza paura, mi ricorda che si, si può vivere meglio di così.