Le carezze le facevano paura, duravano troppo, incollavano pelle a pelle, si insinuavano nelle rughe ancora invisibili di un volto stanco, affranto, spezzato, capovolto di traverso al sogno e alla speranza. Si presuppone ci sia complicità tra una mano che scivola, lenta, su un pezzo di carne, complicità che punta all’animo, si presuppone un po’ tutto ma a lei faceva paura lo stesso e il giorno dopo si svegliò con la voglia di vomitare via ogni cosa: quell’odore di plastica nauseante, quell’odore di finto interesse verso qualcosa, verso qualcuno. Non gliene fregava un cazzo ad Amie, proprio un cazzo di quel manichino etichettato, privo di vita e coscienza propria. Non gliene fregava un cazzo ma da qualche parte sentiva che aveva bisogno di vivere e decise di cominciare sbagliando per capire esattamente quello di cui non aveva bisogno e lo capì la notte dopo, nel silenzio assordante di uno spazio pieno di sé quando una mano sfiorò la sua pelle, una mano, la sua mano, scivolò lenta sul suo volto stanco, affranto, spezzato e capovolto fermandosi al petto, all’altezza del cuore che le sussurrò con rabbia di riempire le rughe di errori senza rinunciare alla bella straziante follia degli amori. Allora comprese che a farle paura non erano le carezze ma le mani sbagliate, allora comprese che seppur non cercasse l’amore, chiedeva a gran voce di vivere forte, di amare e non amare, senza riserve, senza pretese, senza promesse, senza condizioni, senza l’ombra del domani, con la promessa del presente, con la promessa di una mano che la destabilizzasse abbastanza da farle sentire la vita pulsare ovunque, in ogni dove.

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